domenica 18 febbraio 2018

Emanuele Spano recensisce Mauro Macario



Credo non sia cosa facile per nessuno raccontare una personalità complessa e articolata come quella di Mauro Macario perché Macario, nel corso della sua vita e della sua carriera, ha saputo attraversare tutti i campi della scrittura con una disinvoltura notevole, perché Macario prima ancora di essere poeta e scrittore è stato un lettore intelligente e avvertito, un interprete raffinato del mondo e della cultura contemporanea, un intellettuale, nel senso più profondo del termine, che ha compreso il nesso inscindibile tra la letteratura e la realtà.

Credo che la sua opera poetica, che oggi abbiamo la possibilità di rileggere integralmente grazie a questo volume antologico, abbia il pregio di mostrare la statura dell’intellettuale, oltre che il valore dell’artista. Questo libro che ho avuto il piacere di curare insieme al critico Francesco De Nicola, che è autore di una bella e nostalgica prefazione in cui ripercorre per sommi capi le tappe del Macario poeta, è un’opera necessaria per comprendere il suo percorso a partire dall’esordio del Novanta con Le ali della Jena, fino ad arrivare all’ultimo volume edito Metà di niente del 2014 e agli inediti degli ultimi anni.

Basterebbe leggere il titolo scelto per questo volume per comprendere quale sia da sempre la ratio che muove la scrittura di Macario: le trame del disincanto. Ecco la parola “disincanto” non vuole semplicemente essere un sinonimo di “disillusione”, come a voler rimarcare un progressivo venir meno dell’illusione, della fiducia nella realtà, ma si pone volontariamente in antitesi all’idea dell’ “incanto”, quell’incanto che la poesia lirica ha costruito nei secoli e che forse oggi davanti alle tragedie della contemporaneità è impraticabile nonostante certa poesia si ostini a farlo, incurante delle tante, troppe storture della realtà. C’è in questo titolo insomma una dichiarazione di poetica che già era implicita nello splendido titolo che Macario scelse nel 2003 all’atto di antologizzare le raccolte degli anni Novanta: il destino di essere altrove.

Il “destino” era allora, come oggi, quello di essere sempre “altrove”, in un altro luogo, in un’altra dimensione, fuori del coro ebete degli uomini omologati e spersonalizzati dentro una modernità svilente, fuori della schiera dei poetanti, dei sedicenti pensatori, che annegano in uno sterile edonismo della parola e hanno smarrito la forza di raccontare e di denunciare il cancro che divora la nostra società e il nostro mondo. Alla base di tutta la poesia di Macario c’è insomma l’idea che il poeta sia chiamato quasi a una missione, che non possa restare in silenzio di fronte alle tragedie che gli si consumano davanti agli occhi, l’idea che il poeta sia spinto da un’urgenza di dire che è dettata dalla stessa realtà e che la scrittura non debba essere un semplice esercizio di stile, fine a se stesso.

Credo che questa riflessione sulla funzione e sul ruolo del poeta all’interno della società sia centrale in tutto il suo percorso, ma questo libro ci consente di valutare come la scrittura di Macario nel corso degli anni abbia assunto forme e aspetti diversi e come quell’indignatio che muove il poeta fin dalle origini si sia fatta pagina dopo pagina più acuta e tagliente.

Se nelle prime raccolte, e penso al pometto frammentato Le ali della Jena o alle sequenze di Crimini naturali, il poeta è trincerato dietro la rappresentazione di una realtà allucinata, tra paesaggi suburbani e atmosfere notturne, e la sua scrittura è allusiva e simbolica, in Cantico della resa mortale e in Piantagione dei relitti, la silloge che chiude il volume antologico dei primi anni Duemila, il poeta assume una fisionomia definita, veste i panni del censore sempre pronto a confutare la morale fasulla della contemporaneità, sempre in procinto di dichiarare guerra a una società che ha tradito l’uomo e lo ha condannato a una tragica perdita d’identità.

Il Macario di queste raccolte è sempre sospeso tra una dimensione privata, personale, talvolta quasi intimistica, e una dimensione corale, collettiva ed è sempre disposto a fondere queste due dimensioni in una visione univoca.

Se la raccolta Silenzio a Occidente dichiara, ancora una volta, fin dal titolo l’intento di dissacrare la società occidentale votata al consumismo, allora la stessa giovinezza del poeta, che si colloca proprio nella frattura tra due epoche, diventa uno strumento per denunciare quel cambiamento irreversibile, perché il tradimento di quel mondo che gli apparteneva è in realtà il tradimento di un’intera generazione. E la memoria della sua iniziazione sessuale, anche la stessa scoperta del sesso, è forse un modo per affossare quel perbenismo che, da un lato, difende la vita come valore assoluto, dall’altro mostra di non avere più nessun rispetto per la vita e per la morte, nessuna compassione per l’uomo. Non è raro difatti trovare in queste pagine echi di un passato personale, un passato mitico e in qualche maniera “mitizzato”, anche se non esente da quelle tarlature che col tempo finiranno con lo squarciare il tessuto della società e del mondo contemporaneo. Non è raro trovare slanci nostalgici nella scrittura di Macario, rievocazioni leggere di un tempo definitivamente andato, anche se i fotogrammi di quel mondo sommerso sono intrisi di un’ironia amara, di un sarcasmo graffiante che mantiene intatta la vocazione eretica, l’intonazione caustica della parola di Macario.

Anche il capitolo forse più tragico dell’esistenza di Macario che rappresenta peraltro anche uno dei momenti più alti della sua opera, sfugge a qualsiasi logica autoreferenziale. Nella raccolta La screnza – e la screanza del titolo è da intendere come una forma di “disubbidienza” verso la società e verso il mondo – Macario racconta infatti della tragica scomparsa del figlio. Ma la sua poesia non si limita a tessere un commosso compianto del figlio, ma ricuce l’esperienza privata, il tema della perdita che appartiene solo a lui, al tessuto del mondo. Penso ai versi in cui si parla del conto macabro dell’assicurazione che calcola il premio sulla sofferenza che ha dovuto patire, sui brandelli dei vestiti salvati dalle fiamme, e penso a come questi versi ci parlino di quanto quella logica del consumismo, quell’idea del profitto abbia avvelenato irrimediabilmente la nostra esistenza, l’esistenza di noi tutti.

Quella logica di cui ancora Macario ci parla nell’ultima raccolta Metà di niente in cui il bilancio, si capisce da subito, è ancora più tragico, se ciò che ci rimane è ancora la metà del nulla che già possedevamo. Qui ancora si parla di “civiltà addizionale”, si parla di mercato, di globalizzazione, si parla dei sentimenti umani, quotati in borsa, quasi fossero azioni, e qui ancora, gli affetti privati di Macario che tornano con tanta passione ad affacciarsi sulla pagina, sono gli affetti di tutti, e la sua vecchiaia, il suo senso di impotenza verso le cose è quello di tutti noi.

Ora ho cercato di aprire uno spiraglio, di suggerire una possibile chiave di lettura dentro un’opera che, come si sarà capito, è tanto articolata e che merita certo una lettura più attenta di quella che ho tentato, un’opera in cui emergono tante suggestioni, tanti spunti di riflessione in cui anche il racconto di sé, anche quando scende più nel profondo, non è mai un’auto-compatirsi, ma sempre un’analisi lucida della propria interiorità. Eppure, a chiusura di questo discorso, qualcosa lo vorrei dire ancora. Sono certo che quella di Macario è in maniera definitiva una poesia “civile”, lo è proprio perché si sottrae alle regole della poesia civile, come siamo stati abituati a pensarla. Perché fare poesia civile non vuol dire guardare fuori, raccontare ciò che avviene oltre di noi, con la giusta dose di compassione o solidarietà, ma significa sentirsi una fibra del mondo, una parte di quel tutto che ci circonda cui apparteniamo nostro malgrado, vuol dire, e credo sia questa la vera lezione del Macario poeta, sentirsi calati dentro il mondo e riuscire a raccontare attraverso la parola da dentro anche tutto ciò che accade fuori.





Il cappellaio matto

Così ti sogno
corpo privato
e corpo pubblico
per essere io
in molti ad amarti
amando te sola
di un lungo estenuante
languore morfinico
guardandoti
guardata
negli specchi liquidi
dei miei impazzamenti
al di là del possesso
trasversale
ed è per amore che profano
la sacra ghiandola monogama
moltiplicando il tuo corpo
in tante eucarestie

(da Cantico della resa mortale)


Ritratto dell’autore da giovane

Solo nei bar
ripiegato in un angolo
come fuori grandinasse
anni di esercizi solitari
guardando tutti
senza vedere nessuno
anni afasici
per trovare la lingua
che si stacca dal mondo
e poi nel mondo precipita
come una bestemmia in picchiata
dentro una tomba aperta
e mai un fiore
mai una visita
chi l’ha cremata
e le ceneri disperse
passa tranquillo
prende un treno
apre un negozio
spinge una culla
e parla da sola
la lingua trovata
come i matti per strada
innocui e penosi
che pensano all’inverso
e capirli è impossibile
un cielo triste di luce boreale
mi chiudeva alle corde
fatto a pezzi da un vino cattivo
cadevo giù al sesto bicchiere
con grida di soccorso
appena ultimate
sul taccuino a quadretti
in ginocchio sui versi
mi sbucciavo la pelle
tra scarabocchi infernali
e sigarette d’incenso
avvolto come un vecchio
in una bruma avvelenata
di sogni fumosi

Sarzana, 5 novembre 2006

(da Silenzio a Occidente)


Mantra di primavera

L’urna che porto tra le mani
grida forte nel silenzio
nessuno si accorge
chi preme disperato
per uscire a respirare
solo io riesco a udire
quel richiamo soffocato
e non posso liberarlo
né dirgli sottovoce
che appena il vento gira
volerà tra le nubi
si poserà sulle foglie
e rinascerà figlio
e rinascerò padre
sanati da un destino di riserva
a ripercorrere un cammino parallelo
ma da questa umile urna
che sembra una culla di morte
solo vagiti feroci
strappano al cielo
promesse impossibili

Sarzana, 31 -10-2010

(da La screanza)

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